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Quinlan | Non credo in niente di Alessandro Marzullo è un potenziale cult generazionale

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NON CREDO IN NIENTE

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Non credo in niente di Alessandro Marzullo è un potenziale cult generazionale, un esordio nel lungo che reclama a gran voce visibilità, un ulteriore rappresentante della “wave” metropolitana (e notturna) in via di formazione nel nostro cinema. Presentato come evento speciale, in anteprima e fuori competizione, alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro 2023.

Viaggio al termine della notte

Un viaggio notturno sui binari paralleli delle vite di quattro ragazzi, sullo sfondo di una Roma deteriorata, tanto quanto le loro certezze. È solo l’abitudine, come quella di una sosta al paninaro notturno, a rendere dolce il veleno. I protagonisti tenteranno di affrontare le proprie fragilità, assediati da una costante insicurezza esistenziale. Bisogna crederci, sì… ma in cosa? [sinossi]

La Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro ha da qualche anno, con la squadra di selezionatori capeggiata dal direttore Pedro Armocida, diversificato e ampliato la “missione” storica della manifestazione creata da Bruno Torri e Lino Miccichè, quella di scovare in tutto il pianeta forme nuove di rappresentazione audiovisiva, con l’aggettivo riferito sia allo stile che all’età o alla scarsa esperienza pregressa degli artisti coinvolti. Negli ultimi anni si è anche cercato di presentare al pubblico pesarese e alla pletora di giornalisti, critici e addetti ai lavori che intervengono all’evento dei lungometraggi italiani in qualche modo alieni al panorama (asfittico, aggiunta personale) produttivo nazionale, anche solo perché non hanno avuto accesso ai fondi statali per lo spettacolo. Film come Lumina di Samuele Sestieri, per fare solo un esempio, magari imperfetti ma vitali e portatori di uno sguardo laterale e originale rispetto al solito dualismo commedia media/autorialità intimista. Perfetto rappresentante di tutto quanto appena detto, Non credo in niente di Alessandro Marzullo parla alla generazione dei 25/30enni da una prospettiva di prossimità vera e non ostentata, scegliendo anche toni brillanti a tratti ma rifiutando l’atmosfera scanzonata e il finale conciliante, perché non si può stemperare un male esistenziale senza via di uscita, ed edulcorarlo sarebbe irrispettoso e immorale.

La scelta del regista Marzullo (nessuna parentela con l’unico e indegno titolare di un talk show ad argomento cinematografico sulla Tv nazionale) di girare in pellicola Super 16mm, poi riversata in DCP, regala all’opera una veste ormai inusuale, che basterebbe quasi da sola per reclamare e pretendere spazio e considerazione. Ma nel film c’è tanto altro, a partire dai quattro protagonisti, suddivisi in tre storie che non s’incrociano mai tra loro ma condividono un’unica location: un camion che vende panini e bibite, a Roma chiamato gergalmente “zozzone” più per la quantità di condimenti riversati tra le fette di pane che per l’effettivo grado di pulizia dell’esercizio, con il titolare (un divertentissimo Lorenzo Lazzarini, anche tra i produttori con Daitona) pronto a dispensare consigli a metà tra il cazzeggio e il disincanto, unico vero punto di riferimento, anche solo come oasi di pace in mezzo alla tempesta, della combriccola. Due musicisti che lavorano nella cucina di un ristorante gestito da un losco figuro (sintesi brutale e riuscita della massa di datori di lavoro/prenditori di vita convinti che la vessazione del sottoposto sia l’unico modo per interagirvi), una hostess con aspirazioni artistiche indefinite e frequentatrice assidua di locali notturni, un attore disoccupato alle prese con rapporti umani e amorosi senza alcun costrutto. E attorno a loro una costellazione di comprimari a fare da sfondo e controcanto, tutti sbozzati abilmente con pochi tratti e capaci di restituire, lo ripetiamo ancora perché cosa rara e preziosa nel cinema italiano, una verità di comportamenti ed espressioni che rafforza la credibilità del personaggio “in primo piano” sulla scena. Citiamo i due attori più noti, anche solo come richiamo promozionale: Gabriel Montesi, l’Antonio Cassano di Speravo de morì prima e bodyguard assassino nell’ultimo Virzì, Siccità, e Jun Ichikawa, la meravigliosa piratessa che cantava dietro i paraventi per Ermanno Olmi.

Oltre alla consistenza materica della grana della pellicola, l’ottimo lavoro del direttore della fotografia e operatore polacco Kacper Zieba conferisce atmosfera e qualità drammaturgica agli ambienti, interni ed esterni, mentre le musiche di Riccardo Amorese fungono da tappeto sonoro insieme consonante e dissonante, adatto in special modo a riempire le (troppe) sequenze di montaggio parallelo senza dialoghi. Dopo aver assolto alle doverose menzioni di crew e comparto tecnico, bisogna però ribadire che lo stile, fortemente caratterizzato da inquadrature sghembe e uso di grandangoli, è vincente ma non è la vera forza che porta chi scrive a consigliare l’opera, in special modo al pubblico più giovane. L’unicità è data da come la sceneggiatura e le interpretazioni (giusto nominare anche i quattro bravi protagonisti: Mario Russo, Demetra Bellina, Renata Malinconico, Giuseppe Cristiano) intercettino in pieno lo “spirito del tempo”, un momento di passaggio in cui tutti, a partire dal cineasta, sono ancora sospesi nella palude intercorrente tra una carriera affermata e le occasioni buttate al vento. Ancora di più, i protagonisti sono persi e sballottati tra il bisogno di lavorare per campare e la voglia di non rassegnarsi solo a quello, al fatto di essere un cameriere e non un musicista, una hostess e non una scrittrice, di rendersi conto che “ogni cosa che facciamo non funziona, non funziona un cazzo, e non abbiamo più vent’anni”, cittadini di una società che è riuscita solo a comunicare, anche tramite l’onnipresente invadenza social, che la vita casa e lavoro fatta dalle generazioni precedenti non è giusta, non è felice, non è appagante, non è bella. E tutto questo è generalmente comunicato da chi ha i soldi per permettersi il rifiuto, in un clima da dimissioni volontarie post Covid che porta fuori da quello che non si vuole ma dentro a nulla, fuori da coppie rodate, dalla voglia di maternità/paternità che un po’ non c’è e un po’ non ci si può permettere di volere, e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Tra qualche anno (e non succedeva nel cinema italiano indipendente forse dai tempi del Roan Johnson di Fino a qui tutto bene, comunque molto più convenzionale e rassicurante, o, andando ancora più indietro, da film come Fame chimica di Antonio Boccia e Paolo Vari o Sangue – La morte non esiste del mai troppo compianto Libero De Rienzo) si potrà guardare indietro a questi 100 minuti come una fotografia non sfocata di quest’epoca complessa e di difficile interpretazione. E l’unico modo di arrivarci è quello di non volerlo fare, di ostentare fin dal titolo un nichilismo obbligato più che scelto, di essere in mezzo alla contemporaneità senza calarcisi sopra dall’alto, per questo differenziando Non credo in niente dal suo referente mainstream più diretto, la trilogia di Smetto quando voglio di Sydney Sibilia. Lì, però, l’eccellenza accademica dei protagonisti aveva la veste e il ruolo di un superpotere, in sonno fino al momento di essere scatenato alla bisogna. Qui non ci sono poteri, solo ragazzi impegnati a vivere, giorno dopo giorno, mese dopo mese, con l’incubo di veder sfilare via i migliori anni senza nemmeno accorgersene.

E, in presenza di quanto appena detto, tutte le piccole imperfezioni, le lungaggini, gli sporadici manierismi passano, DEVONO passare, in secondo piano. Uno dei problemi della critica italiana contemporanea, o di quel che ne resta, è di privilegiare il lato professorale, il voto, il giudizio al contesto, di considerare ogni film come una monade a sé stante da prendere in esame senza calarla in nessun contesto. Noi crediamo fortemente che questo sia sbagliato, crediamo che sia necessario dare il tempo agli artisti (quelli di cui s’intravede un talento, certo) di crescere facendo film com’è sempre stato in passato, crediamo che il nostro compito sia quello d’indicare una direzione e di combattere il niente.

Recensione di Donato D’Elia

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