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Non credo in niente, recensione: frammenti umani su pellicola prima
Opera prima di Alessandro Marzullo, girata tutta su pellicola da grana grossa, a tempo di record, Non credo in niente è uno spaccato giovanile dall’impianto magnetico. Che ci ricorda che la vita, come il cinema, è un serie di frammenti. E spetta a chi di noi ci riesce, rimettere insieme i pezzi.
Non credo in niente. Ha l’ovvio sapore del manifesto generazionale – anche se non ha l’arroganza di volerlo essere per forza, quanto più un racconto; racconto, sì, generazionale – il film opera prima di Alessandro Marzullo. E infatti la sua affascinante locandina ricorda (chiaramente) un Clerks di Kevin Smith. E qualcuno in sala gli chiede se non ci sia anche un po’ di Wong Kar-wai (ma più dalle parti di Porta Portese, che di Hong Kong). E c’è tanto, non tutto di derivativo, come questi primi riferimenti potrebbero far pensare. Anzi.
C’è in realtà, nel mezzo di tanti altri che abbiamo sentito nelle ultime settimane, uno dei migliori debutti italiani degli ultimi mesi. Ed è girato tutto su pellicola – una pellicola sporca, ruvida, che non vedevamo da un po’ così volutamente “bistrattata”, e anche questo seduce assieme a molto altro – ma con uno sforzo produttivo e distributivo incomparabile, rispetto a quello dei “tanti altri”. E per questo noi, che l’abbiamo visto al Cinema Troisi di Roma in una delle sue tappe distributive itineranti (il film non ha una vera e propria distribuzione in sala, ma gira per l’Italia assieme al suo cast e regista, qui trovate le prossime date) ci sentiamo non solo di scriverne. Ma di consigliarne, attivamente, la visione. Per un’infinità di motivi che ora vi spieghiamo.
Cinema e vita sono insiemi di frammenti complessi
“Nella nostra epoca il mondo intorno a noi è tagliuzzato in frammenti scarsamente coordinati, mentre le nostre vite individuali sono frammentate in una successione di episodi mal collegati fra loro”
Zygmunt Bauman
Inizia così, Non credo in niente. Con una citazione dal pensatore della Società Liquida. Citazione che tornerà fondamentale per comprendere tutto il senso dell’operazione di Alessandro Marzullo. Un racconto per tre storie che non si incrociano mai, se non sotto la tettoia di un paninaro di periferia, crocevia della vita: Cara (Renata Malinconico) e Jonio (Mario Russo) sono una coppia di cuochi sfruttati, innamorati, impelagati in una relazione tossica, che sognano di sfondare nella musica; Centocelle (Giuseppe Cristiano) ha sfondato come attore ma ha perso la capacità d’innamorarsi; Numero 4 (Demetra Bellina) è una hostess che ha abbandonato la sua arte e l’ha sostituita con strane asserzioni su cosa voglia dire innamorarsi, rendendosi più vacua, agli occhi degli altri, come il gioco di una bambina, di quanto in realtà non sia.
Storie e frammenti di storia, amori e coiti, aspirazioni e fallimenti. Rapporti con l’arte, coiti interrotti. Per quanto ne sappiamo potrebbero essere tutti amici del regista: “Cose che ho visto” – ci dice infatti, in sala. E per quanto ne sappiamo potrebbero essere tutti morti. E se non lo sono ancora, questa vita li ucciderà tempo domattina. Nella stessa sala, il film lo vado a vedere con un amico. Che a un certo punto mi fa: “Non è un film, sono sequenze“. E io gli faccio, un po’ da saputo: “Ma un film è una serie di sequenze. È il nostro cervello che dà loro continuità. È il cinema, si chiama Motion Capture“.
Poco più tardi infatti, lo stesso amico si ricrede un po’ e aggiunge: “Però ripensandoci, riprende perfettamente la frase di Bauman“. Esatto, amico mio. Perché questo è il cinema, che è anche la vita. Non un insieme organizzato e categorizzato di eventi – e questo ce l’ha detto, proprio di recente, uno che il cinema lo fa’ da 40 anni, rubo a lui. Ma un insieme di frammenti stropicciati, di mozziconi e bruciature di sigaretta. E questo, Alessandro Marzullo, lo comunica in modo chiaro ed evidente. Attraverso la regia.
Film di regia, non di virtuosismo
Ho letto in una recensione – una delle pochissime negative in realtà – parlare di questo film con l’aggettivo: “Virtuosistico”. L’ho letta prima di vederlo, al che mi ha un po’ preoccupato, perché di base io i virtuosismi non li sopporto. E l’unica cosa che mi sento di scrivere adesso, avendolo visto, è che il virtuosismo è virtuosismo quando non comunica. Quando è fine a se stesso, vuoto, non pensato. Questo comunica invece, eccome, attraverso i suoi “virtuosismi”. Non è un film che parla per sceneggiatura, o preminentemente per prove attoriali: è un film che parla per regia, per immagini, per grana.
Per questo lo accettiamo anche quando, alle volte, di rado, forse sovrastima. Ma è ciò che spetta alle opere prime – è loro compito, quasi loro dovere – che si arrischino al sole con le ali di un esordiente, e un po’ allora si brucino. Ma chiunque tenta si brucia. Chiunque tenti per sfondare, si brucia. La differenza la fa’ la distanza che avrà percorso prima che questo avvenga. Speriamo, auspichiamo tanta, per Non credo in niente. Se i protagonisti di questa storia sembrano persi, sembrano i nostri Fallen Angels di Roma, in moto in galleria e con il morale sotto un treno, è attraverso l’ambizione di Marzullo che ci vengono comunicate le loro.
Lo sforzo produttivo di Non credo in niente
Sempre perché questo è uno di quei film che mi porta a scrivere e pensare cose che normalmente non penserei: tipo fornire qualche dato dal lato produttivo. Ma certe volte ci vuole: perché questo è un film girato tutto su pellicola nel giro, ci rivelano, di 13 notti. Tredici notti. Io non so se abbiate idea di quanto ci voglia a fare un film, di quanti soldi ci vogliano anche (e qui erano pochissimi, tanto pochi da far impressione, alla luce del risultato). È uno sforzo produttivo inimmaginabile.
Viene da sottolinearlo perché in queste stesse settimane sembra respirarsi una strana coincidenza di opere prime italiane, il nostro piccolo Barbenheimer di esordienti. Che un po’, con la concomitanza, si sono spinti a vicenda: “Hai visto Patagonia? No, ma dovresti vedere Una sterminata domenica“. E così via da un po’ di sere. E a molti è venuto da suggerire una comparazione, ora, con Non credo in niente.
Bene: Non credo in niente non solo può certamente competere, ma dovrebbe essere messo in condizioni di farlo considerate le premesse di partenza abissali che li separano. Il paradosso insomma di vedere tre film in qualche modo accomunati da una volontà comune, con risultati alla pari, ma per cui ora fa quasi sorridere pensare a Patagonia e Una sterminata domenica come film “indipendenti”. Il fatto che Non credo in niente si veda loro comparato, è la dimostrazione di quanto si possa fare incredibilmente di più, o comunque altrettanto, con incredibilmente di meno. E quando questo succede, andrebbe valorizzato. Perché un film fa un esordio. Due esordi fanno un sentore. Tre esordi fanno un generazione condivisa.
Roma affamata, non crede più in niente
Postille di fine recensione. Non fosse bastato tutto il resto, Non credo in niente si presta come sincero spaccato di Roma, polaroid molto accurata, accompagnata dalla graditissima colonna sonora di Riccardo Amorese, alla quale si sommano contributi di parte del cast e del regista. Lo scrive un romano de’ Roma, da sempre: neanche ponendoselo come primario obiettivo (forse), questo film rende uno sguardo fra i più sinceri di questa città.
Come quando Er Paninaro – Lorenzo Lazzarini, che interpreta e produce – che fa’ da connessione a tutte le storie, nelle cui pagnotte e salsiccia si sono ritrovati tutti loro e ci ritroviamo tutti noi romani giorno per giorno, ci aggiunge anche un che di metatestuale. Sul cinema, su dove andremo a finire signora mia. Con Non credo in niente, si spera, ancora lontano:
“È proprio ‘npaese demmerda. Non ce stanno piu li tempi de ‘na vorta. Sordi, Rossellini. ‘O sai che mi padre ha lavorato co’ Fellini? Mica cazzi”.
Er Paninaro
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Articolo di Carlo Giuliano