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“Non credo in niente”, il disagio dei Millennial sul grande schermo. Intervista al regista
In una Roma sporca, notturna e decadente quattro ragazzi intrecciano le loro vite cercando una luce. A legare i fili della trama neon tremolanti, occasioni che mancano e un camion bar dove un “prete della notte” travestito da paninaro ascolta le loro confessioni. Questo e molto altro è Non credo in niente, il primo lungometraggio del regista Alessandro Marzullo, un racconto in pellicola dei disagi della generazione dei Millennials, schiacciata tra le pressioni della società e quel senso di smarrimento e abbandono tipico dei nati negli anni Novanta. Un film con un cast importante (Giuseppe Cristiano, Demetra Bellina, Renata Malinconico e Mario Russo i protagonisti) che sarà nelle sale italiane a settembre e che è stato presentato il 23 giugno al Festival del cinema di Pesaro. Ne abbiamo parlato con l’autore e regista.
Come nasce “Non credo in niente”?
«Una sera di quasi 15 anni fa mi trovavo, abbastanza ubriaco, nel centro di Modena. Senza neanche pensarci, mi sono detto: “Scriviamo una roba sul muro” e ho scritto “Non credo in niente”. In seguito, la scritta è stata fotografata e messa sui social, diventando virale. Quelle parole devono aver trasmesso qualcosa a chi le ha lette per strada o in rete. Se oggi su Google immagini scrivi “Non credo in niente”, il primo risultato dopo il materiale legato al film è ancora quella mia scritta. Il sentimento che mi ha spinto a esprimere il mio disagio in quel modo non mi ha abbandonato nel corso degli anni. Ho toccato i 30 un paio di settimane fa, quando sono partite le riprese ne avevo 27, quando ho iniziato a pensarci 26. Con lo scoppio della pandemia, che ha impattato con grande forza sulla mia storia personale e su quella collettiva, si è manifestata in me l’urgenza di fare un bilancio della mia vita. Questo film è esattamente quel bilancio: mi rappresenta, è pregno delle esperienze personali mie e delle persone che mi circondano. Dirò di più: il sentimento che permea la pellicola, secondo me, è presente in larga parte nella mia generazione. E “Non credo in niente” ne è un manifesto».
Nel racconto è presente molta sporcizia anche nelle ambientazioni. In che modo si lega al messaggio del film?
«La nostra è una generazione per me molto difficile da capire, da inquadrare, da giudicare, ma di una cosa sono sicuro: siamo relegati ai “retro” delle cose. Non siamo mai entrati dalla porta principale di nessun luogo: abbiamo sempre vissuto meglio al buio, lontani dalla luce del giorno, perché nel buio c’è meno pressione, meno stress. Si può pensare, si può riflettere, si sta più tranquilli. Per noi la vita, le aspettative sono state pressanti, asfissianti. È per questo che ho girato tutto di notte e tutto si svolge nel retro dei luoghi: la nostra generazione non è mai stata protagonista del mondo».
La protagonista “invisibile” del film è la musica, che domina la pellicola molto più degli sporadici dialoghi. Che ruolo ha il suono in “Non credo in niente”?
«Ha un significato cruciale. Ancor prima di iniziare a scrivere la sceneggiatura ho lavorato assieme al compositore: ho scritto il film in base alla sua colonna sonora, è stata una genesi condivisa e mutuale. La musica riesce a dire quello che le parole non possono. So che suona come una banalità, ma per sua natura la musica è astratta e a me è servita per comunicare il sentimento della mia generazione in modi che i dialoghi e le ambientazioni avrebbero senz’altro fallito a trovare».
Il tuo film d’esordio ha un cast di attori già affermati. Com’è stato il tuo rapporto con loro?
«Parte dei protagonisti la conoscevo già in precedenza. Ho vissuto per lungo tempo insieme a Giuseppe Cristiano, mentre Gabriel Montesi ha preso dopo di me la camera che avevo in affitto, una di quelle stanze-sgabuzzino tipiche delle città universitarie, in cui paghi meno perché non hai finestre. Parliamo di quattro metri quadri di loculo che ci siamo passati l’un l’altro nel giro di un anno, in un rapporto di vita e di incroci di traiettorie. Questa comunanza di esperienze, che univa anche altri membri del cast, rendeva possibile l’unità di intenti che ha caratterizzato la lavorazione del film. Con altri, che conoscevo meno o non conoscevo affatto, ho passato del tempo in una sorta di residenza comune. Ho scelto questo approccio per capire se davvero anche loro avessero dentro quello stesso disagio che volevo trasmettere con il mio film: se da una parte infatti sono convinto che questi problemi siano generazionali, dall’altra sono ben consapevole che questa caratteristica accomuna solo determinate classi sociali e gruppi culturali. Che poi, è un disagio sociale che non si estende solo al mondo dello spettacolo italiano, ma va anche oltre: basti pensare che anche il compositore delle musiche e il direttore della fotografia, che è polacco, hanno sposato in pieno il progetto perché si rispecchiavano nel suo messaggio. È qualcosa che accomuna l’intero Occidente, con le dovute differenze. Voglio sottolinearlo: non ho pilotato il cast come un marionettista, ognuno ha dato il suo contributo personale. Poi c’è un aspetto che mi ha colpito molto: il film è stato prodotto a bassissimo budget, poco più che a rimborso spese. Nonostante ciò, al Festival di Pesaro sono venute quaranta persone tra artisti e tecnici a spese loro, di loro spontanea volontà. Significa che “Non credo in niente”, che sembra un titolo così nichilista, in realtà forse è rappresentativo della grande voglia di fare che ha questa generazione: se non ci lasciate lo spazio che ci meritiamo ce lo veniamo a prendere, come dimostra il film».
La maggior parte dei protagonisti del tuo film, però, proviene dal mondo dello spettacolo. Perché questa scelta?
«Quando ho iniziato a scriverlo non ero così consapevole che la loro caratteristica comune fosse il talento nelle arti, è diventato evidente strada facendo. Mi sono detto che forse dipendeva dal fatto che in questa fase storica c’è una larghissima diffusione dell’arte a tutti i livelli della società. Oggi non è un’esclusiva delle élite, ma un mestiere molto praticato anche in luoghi più raccolti. Pensiamo a Pesaro, che ho scelto per presentare il film: qui c’è un festival importante che va avanti da quasi sessant’anni, è una città rilevante per l’arte cinematografica. Gli artisti ormai sono ovunque. Non si tratta più di personaggi come quelli de “La Dolce Vita”, che conducevano un’esistenza privilegiata e molto distante dal popolo: oggi l’artista è il popolo. Pensiamo all’enorme diffusione di YouTube, dove chiunque può aprire un canale e montare, creare, produrre i propri video e quindi fare qualcosa legato alle arti visive. Discorso simile con la musica, dove puoi produrre, registrare, mixare e distribuire una canzone, un album, un disco dalla tua cameretta. Chi più degli artisti poteva rappresentare la mia generazione?»
Perché, in un’epoca dove domina il digitale, hai scelto la pellicola per la tua opera prima?
«Ci sono motivazioni di carattere estetico e altre legate al linguaggio narrativo. Ho cercato di utilizzare una luce, una fotografia che fossero abbastanza granulose, sporche. Volevo restituire un certo tipo di sensazione allo spettatore, non si tratta di una scelta ornamentale o da poser: basti pensare alla scelta delle ambientazioni, quasi sempre disordinate e “zozze”. Dal punto di vista dell’estetica e del sentimento, io sono innamorato del cinema che vedevo da piccolissimo, quando i film erano girati in pellicola. Da profano, non riuscivo a capire perché le nuove proiezioni mi convincessero meno, poi ho compreso le differenze tecniche tra i film in cellulosa e quelli con codifica transcodica, differenze legate alla fluidità di movimento, alla corposità dei colori, alla grana. Da una parte c’è un elemento di nostalgia, dall’altra un gusto legato alla resa delle immagini che questo formato più classico offre».
Che tipo di distribuzione avrà il tuo film? Cosa ti aspetti da questa esperienza?
«Il mio desiderio principale era quello di portare quantomeno a termine il progetto, e direi che posso dirmi felice del risultato. Ora, vorrei che lo guardasse il maggior numero di persone possibile nelle sale cinematografiche. Per far sì che ciò potesse avvenire, abbiamo dovuto scegliere il contesto giusto per presentarlo e il Festival di Pesaro è stato il luogo perfetto. “Non credo in niente” non ha un linguaggio immediato, richiede un minimo di introspezione, quindi il prossimo passo sarà far sì che venga distribuito in quelle sale che hanno un pubblico più rodato e fidelizzato, quello che le frequenta per amore del grande schermo, più che in contesti mainstream da mordi e fuggi. Inoltre, stiamo lavorando perché il film arrivi all’estero e su internet, ma prima puntiamo al lancio nei cinema a settembre. Per quel che riguarda il mio futuro personale, il “cursus honorum” vorrebbe che, dopo aver realizzato prima una webserie, poi un corto, infine un film, il prossimo passo sia una serie TV. A me in realtà basterebbe non ripetermi e lavorare sempre a qualcosa di nuovo. Non ho alcuna tabella mentale prestabilita, se non quella di restare fedele alle mie idee».
Articolo di Francesco Stati